Ancora a proposito della Germania

Nota in calce all’articolo di W. Theodor Elwert, Per una migliore comprensione della Germania di oggi, «Il Campano», a. XI, n. 2, Pisa, aprile 1935, p. 11.

ANCORA A PROPOSITO DELLA GERMANIA

Il mio articolo su La Germania e la civiltà contemporanea richiedeva delle risposte; ne sono venute due, da due parti opposte, una, l’articolo di Theodor Elwert, l’altra, un articolo di Walter Prosperetti su «Battaglie Fasciste». Non mi hanno soddisfatto. E ne dirò brevemente le ragioni, partitamente. Il dott. Elwert ha preso la mia scontentezza di fronte alla Germania attuale come derivante da un confronto con la Germania demo-liberale dell’immediato dopoguerra, mentre io mi rifacevo al romanticismo e includevo il momento weimariano già nell’epoca nuova, col distacco dalla grande tradizione tedesca. Io non difendevo affatto la Germania del dopoguerra, opponevo semplicemente la civiltà del terzo Reich a quella della riforma e del romanticismo.

Io so che ogni fenomeno storico ha la sua ragione d’esistere ed è sempre degno per ciò stesso, di essere preso sul serio, ma d’altra parte, il giudizio di valore, il giudizio sull’elemento rappresentativo, sussiste. Se dunque io comprendo le ragioni storiche del nazionalsocialismo, le sue radici in uno spirito giovanile esistente già nell’anteguerra (ma quando parlo di romanticismo, parlo di quello grande e non tanto della fioritura delle leggende e delle scampagnate), posso senza incoerenza sentirmi lontanissimo dalle idee costruttive del movimento nazista, da quelle idee che lo distinguono nettamente dal fascismo. Che ci sia da vedere molto di piú di quel che si vede superficialmente nella Germania d’oggi, lo ammetto senz’altro ma qualunque risultato raggiunga il nazismo e da qualunque esigenza realistica parta, restano le idee base, la dottrina, il senso della vita che, ripeto, sono ben lontane dalle nostre. Lo stesso Elwert infatti, alla fine del suo articolo, mi rinsalda nella mia opinione circa la centralità del mito razzista nella concezione hitleriana. Sappiamo purtroppo che l’ideologia razzista non si è limitata alla Germania sola, conosciamo le belle gesta di Brest, e ci è stata occasione di sorriso l’importanza data al celtismo nella valutazione del simbolismo francese, in un libro del critico Charpentier.

Ma se queste idee circolano per l’Europa (e ad ogni modo limitatamente di fronte all’importanza che hanno in Germania) queste sono idee deteriori, nate da un cattivo romanticismo materialistico, lontanissimo dal nostro clima spirituale. Perché noi della razza ce ne infischiamo ed abbiamo altro da fare che correre alla ricerca del puro tipo italiano o del sangue del sud.

Queste osservazioni sulla razza ci aprono la via a parlare dell’articolo di Prosperetti.

A Prosperetti dico che noi la tradizione ce la portiamo nell’anima e non abbiamo bisogno di parlare di romanesimo per sentire l’apporto che ci viene dalla nostra civiltà. E della nostra tradizione conosciamo i valori e conosciamo tanto di storia e di storia della filosofia, per sapere che importanza abbia avuto l’Italia in tutta la storia europea. Ma la tradizione è un punto di partenza, non una meta di arrivo, ed è d’altronde cosí intima che non la rompe davvero se non chi sempre la supera e la vive nel presente. Ci interessa ciò che dobbiamo fare, non ciò che siamo. Vogliamo la nostra vita, non il nostro passato.

Perciò io non sento il bisogno di contrapporre Romanesimo e Germanesimo, ma semmai Nazionalsocialismo e Fascismo. Guardi ad ogni modo il Prosperetti, rifacendosi ad un esame obbiettivo della riforma e del romanticismo se per caso quel semplicismo di cui egli piú o meno apertamente mi accusa non infici proprio quella facile linea in cui egli rinchiude la storia della civiltà tedesca.

In conclusione tengo a riaffermare contro il Prosperetti, che vede polemicamente una continuità «degenerativa», e contro l’Elwert che abbozza al contrario una continuità culminante positivamente nel nazismo (e non parla tanto della Germania di cui noi parlavamo, quanto della Germania anteguerra inverata, nel suo meglio, in quella odierna), la diversità tra lo spirito della Riforma e del Romanticismo, e quello del Nazionalsocialismo. Riconosco, come riconoscevo del resto già nell’articolo di novembre, una certa durezza nel trapasso dal romanticismo alla Germania di Sedan (ed è inevitabile d’altronde un forte senso di astrattezza in simili articoli), ma quello che soprattutto mi importa è la constatazione ben chiara del diverso spirito che anima i due momenti.